Author: beraldo

  • Sort Blog:
  • All
  • clienti
  • compliance
  • comunicazione
  • consulenza rsa
  • contratti
  • covid19
  • diritto civile
  • diritto lavoro
  • impresa
  • privati
  • rsa

Separazione e divorzio in un unico procedimento: le nuove regole della riforma Cartabia

Con il nuovo articolo 473 bis 49 del codice di procedura civile è stata introdotta una delle più significative novità della cosiddetta “Riforma Cartabia” – ovvero la riforma del processo civile – nell’ambito del diritto di famiglia.
Perché questa riforma? Per ridurre i tempi del processo così da giungere al divorzio con un unico procedimento evitando due giudizi successivi spesso connotati da domande se non identiche quantomeno similari, come quelle sui contributi economici e sull’affidamento dei figli.
 
La separazione e il divorzio giudiziale in un unico procedimento
Con un unico ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’una o dell’altra parte è oggi possibile chiedere sia la separazione che il divorzio. 
Ecco le regole principali:
  • sia il coniuge ricorrente che il resistente possono chiedere il divorzio, nonché le domande ad esso connesse (ad esempio per l’assegno di mantenimento e l’affidamento dei figli) con il ricorso introduttivo o con la comparsa di costituzione nel processo di separazione
  • non ci saranno più due fasi – la prima di fronte al presidente e la seconda davanti al giudice – ma un’unica fase processuale in cui vengono esposti da subito tutti i dati e i fatti rilevanti che siano ritenuti utili a definire il ricorso
  • come si arriva al divorzio? Innanzitutto deve essere stata pronunciata la separazione (è sufficiente la sentenza parziale); devono poi essere passati almeno dodici mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al giudice.

 

La definizione della parte patrimoniale
La preparazione dei documenti in vista della prima udienza diventa fondamentale: da subito occorrerà raccogliere tutti i mezzi di prova ed esporre in modo completo i fatti e gli elementi di diritto utili, soprattutto in presenza di figli.
Per quel che riguarda la parte patrimoniale, al momento della presentazione del ricorso andranno indicate:
  • le disponibilità di reddito e patrimoniali dell’ultimo triennio come ad esempio le proprietà immobiliari e mobiliari, gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari degli ultimi tre anni, le rendite
  • le spese sostenute e gli oneri (ad esempio mutui-affitti) di cui si è gravati

 

Il piano genitoriale
In presenza di figli dovrà essere presentato un piano genitoriale per la definizione della loro gestione quotidiana che comprenda ogni aspetto della vita dei minori – dunque anche anche le attività extrascolastiche e le vacanze – e del mantenimento economico di ciascun figlio.
La finalità è quella di non modificare le abitudini e le necessità dei figli in seguito alla separazione dei genitori. Nel caso di una mancata intesa tra i genitori sul contenuto del piano sarà il giudice ad indicare la migliore soluzione nell’esclusivo interesse dei minori e nel rispetto delle reali disponibilità economiche di ciascun genitore.
 
Cosa accade nel caso di separazione e divorzio consensuale?
Anche se l’art. 473-bis. 49 non lo prevede espressamente, il cumulo di separazione e divorzio è ammesso anche nei procedimenti su domanda congiunta: separazione e divorzio consensuale.
In questo caso si potrà arrivare al divorzio dopo sei mesi dalla prima comparizione dei coniugi davanti al giudice.

 

Hai bisogno di chiederci consigli ? Parliamone

L’infortunio sul lavoro e la formazione del lavoratore in materia di sicurezza. Quale nesso?

Nel nostro ultimo articolo siamo tornati sul decreto legislativo 231/ 2001 per la centralità che continua a rivestire per la vita delle imprese. Qui – in tema di sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro – vogliamo segnalare due recenti sentenze della Cassazione Penale con un denominatore comune: la formazione del lavoratore come elemento imprescindibile in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. 

 

La responsabilità civile e penale del datore di lavoro e l’incorruttibilità del nesso di causalità
La prima sentenza è la n.34936 del 21 settembre 2022 in cui la Corte si è pronunciata sulla responsabilità penale dell’impresa in caso di lesioni colpose del lavoratore imputabili alla mancata formazione. I punti da sottolineare e che ribadiscono la linea tenuta dalla Corte in materia sono: 

 

  • La responsabilità penale e civile del datore di lavoro derivante dalla violazione dall’obbligo di salute e sicurezza disciplinato dal D.Lgs. 81/2008 oltre che dall’art. 2087 del codice civile (obbligo di sicurezza in capo all’imprenditore) per cui devono essere predisposte tutte le misure necessarie per la tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore. Misure da pensare secondo il criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile.
  • Il fatto che la valutazione dei rischi debba concretizzarsi nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) con la menzione specifica di tutti i fattori di rischio e pericolo che siano concretamente presenti nel luogo di lavoro essendo totalmente inidoneo un DVR “meramente compilativo e cartolare delle procedure segnalate nel documento, prive di qualsiasi specifica indicazione operativa”.
  • La responsabilità amministrativa del datore di lavoro ex decreto legislativo 231/2001 per cui l’ente è responsabile dei reati commessi da parte di soggetti che abbiano posizioni di direzione-amministrazione – rappresentanza a meno che non venga dimostrato di aver messo in atto, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione finalizzati alla prevenzione dei reati.
  • La relazione tra DVR non adeguato, mancata formazione del personale in materia di sicurezza e imprudenza del singolo lavoratore nella condotta tenuta. Viene dunque ribadito dalla massima Corte il principio secondo cui la condotta imprudente del lavoratore non interrompe il nesso causale tra evento e sistema di sicurezza inadeguato; sistema di sicurezza – costituito da periodiche revisioni del DVR e adozione di tutte le misure idonee (costituzione di staff medico e tecnico ad esempio) a proteggere i lavoratori da eventi dannosi causati anche dalla loro colpa.
 
Quando l’infortunio riguarda il lavoratore di lunga esperienza

 

L’altra sentenza sulla quale vorremmo soffermarci è la 39489/2022 del 19 ottobre. In questo caso l’infortunio riguardava un caposquadra, rientrante tra le figure dei preposti ovvero quei soggetti che sul luogo di lavoro svolgono funzioni di supervisione e controllo sulle attività lavorative concretamente svolte. 
Anche qui la Cassazione si è pronunciata secondo i propri consolidati principi sottolineando come l’esperienza personale del lavoratore non possa superare o attenuare in alcun modo l’attività di formazione a cui è tenuto il datore di lavoro circa la tutela della salute e sicurezza dei propri lavoratori. Questo anche qualora si tratti di un lavoratore:

 

formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro”

 

In sintesi e per quel che ci riguarda in qualità di consulenti legali di molte imprese, in caso di infortunio, la condotta irresponsabile del singolo lavoratore o l’agire sulla base della propria lunga esperienza operativa non assumono secondo la Corte una rilevanza tale da legittimare la mancata attuazione degli obblighi in capo al datore di lavoro circa la formazione in materia di sicurezza. 
 

Dubbi o necessità di chiederci consigli su un’ esperienza simile? Parliamone

Cosa vorremmo dire alle imprese in materia di 231

Il decreto legislativo 231 del 2001 – sulla responsabilità degli enti in caso di commissione di alcuni reati da parte di soggetti che ricoprono posizioni rilevanti al loro interno – riveste ancora una posizione centrale per la vita delle imprese. Qui sottolineiamo due aspetti che ci sembrano importanti per tracciare un bilancio di questa normativa:

 

  • la natura della responsabilità tuttora controversa
  • l’importanza di dotarsi di un Modello organizzativo e di un Organismo di Vigilanza

 

Ricordiamo cosa prevede il decreto

 

Chi assiste legalmente società ed enti si trova molto spesso ad incrociare questo decreto di cui ricordiamo brevemente verso chi è indirizzato e cosa disciplina.

 

I soggetti destinatari del decreto

sono chiaramente individuati all’art. 1, comma 2 che include nell’ambito di applicazione gli enti forniti di personalità giuridica e le società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Questo vuol dire che la disciplina relativa alla responsabilità amministrativa da reato si applica a società di persone e di capitali, società unipersonali e S.r.l. a socio unico (secondo la giurisprudenza più recente), società tra professionisti, associazioni riconosciute e non riconosciute, fondazioni – anche Onlus – enti pubblici economici.

 

“La responsabilità prevista nei confronti di questi soggetti è autonoma e diretta e si concretizza in caso di commissione di alcuni reati – i cosiddetti reati presupposto – da parte di soggetti che ricoprano ruoli apicali all’interno della struttura organizzativa, nell’interesse e a vantaggio dell’ente. L’ente non è pertanto responsabile quando l’autore del reato abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi”

 

I “reati presupposto

sono  tassativamente enumerati negli articoli dal 24 fino al 26. Negli anni il catalogo che li prevede ha subito un costante incremento assumendo una fisionomia complessa che spazia – ricordandone solo alcuni – dai delitti contro la pubblica amministrazione o di criminalità organizzata, ai reati ambientali e tributari fino ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commessi per violazione delle norme antinfortunistiche, a tutela dell’igiene e della salute sul lavoro.

 

Responsabilità: ma di che tipo?

 

Il procedimento di accertamento della responsabilità dell’ente e quello del fatto reato sono assegnati alla cognizione del medesimo giudice e vengono trattati unitariamente nell’ambito del processo penale. La previsione di una responsabilità da reato in capo agli enti ha fatto inevitabilmente sorgere negli anni un dibattito sulla sua natura giuridica nel quale emergono sostanzialmente tre posizioni:

 

  1. la prima, secondo la quale si tratterebbe di una responsabilità autenticamente amministrativa
  2. la seconda che ritiene si tratti – nonostante la definizione giuridica – di una responsabilità penale
  3. la terza, desunta dalla Relazione Ministeriale al decreto e sviluppata anche dalla giurisprudenza, che individua nella responsabilità degli enti un sottosistema punitivo autonomo in grado di coniugare “i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili della massima garanzia” (Cassazione penale, Sez. Unite, 24.04.2014 n. 38343 ThyssenKrupp).

 

Perché le imprese dovrebbero dotarsi di un Modello Organizzativo e nominare l’Organismo di Vigilanza

 

In questo quadro, tracciato in estrema sintesi e nei tratti essenziali, si inserisce la figura dell’Organismo di Vigilanza con un ruolo fondamentale. Perché? Gli articoli 6 e 7 del decreto prevedono infatti come cause esimenti che l’ente abbia adottato ed attuato in modo efficace prima della commissione del reato da parte dei suoi esponenti, “modelli di organizzazione e di gestione” che risultino idonei a prevenire reati della specie di quello che si è verificato e che abbia affidato a un distinto organismo con poteri autonomi di iniziativa e controllo “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento”.

 

Nel sistema delineato è quindi conferito all’Organismo di Vigilanza il compito di valutare l’adeguatezza del Modello Organizzativo dell’impresa, vigilare sulla sua corretta ed effettiva implementazione e suggerirne eventuali aggiornamenti al mutare di determinate circostanze.

 

Ma vale per tutti?

 

Occorre sottolineare che fatta eccezione per alcune disposizioni di settore (da evidenziare l’obbligo sussistente per le realtà che intendono ottenere l’accreditamento e la contrattualizzazione con il Sistema Sanitario Nazionale e Regionale) gli enti non sono obbligati ad adottare e attuare un idoneo Modello Organizzativo né a dotarsi di un Organismo di Vigilanza.

 

La presenza di questi due elementi integra però una condizione per beneficiare di un possibile esonero di responsabilità a fronte del compimento di un reato presupposto.

 

L’importanza dell’esonero di responsabilità si comprende ancor più se si considera che, in caso di accertata responsabilità, il sistema sanzionatorio previsto è articolato e rigoroso. Lo disciplina la Sezione II al cui interno le sanzioni finanziariequelle pecuniarie e di confisca – coesistono sia con la pubblicazione della sentenza – con funzione stigmatizzante – che con le sanzioni interdittive  che riguardano l’attività dell’ente, con effetti che potrebbero incidere sulla continuità dell’attività ovvero:

 

  • l’interdizione dall’esercizio dell’attività
  • la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito
  • il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione
  • l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi
  • il divieto di pubblicizzare beni o servizi

 

Come chiarito dalla costante giurisprudenza in materia, gli amministratori che non adottino un modello organizzativo possono essere oggetto di azione di responsabilità ex art. 2393 cod.civ. e di richiesta di risarcimento dei danni da parte dei soci nel caso di condanna della società per responsabilità amministrativa.

 

Questo perché nell’ambito del loro operato avrebbero dovuto tener conto della normativa, dotando l’organizzazione di un Modello Organizzativo e nominando un Organismo di Vigilanza.

Se il lavoratore abusa del diritto ai permessi retribuiti

Due recenti sentenze della Cassazione inducono una riflessione sull’abuso di due particolari tipologie di permessi retribuiti.
Si tratta, rispettivamente:
  • della sentenza n. 25290 del 24 agosto 2022 riguardante i permessi previsti dall’art. 33 comma 3 della legge 104/1992 ovvero quelli accordati ai genitori – anche adottivi – per assistere minori con handicap o ai dipendenti pubblici o privati per dare assistenza a persona con disabilità in situazione di gravità (coniuge, parente o affine entro il secondo grado) e che prevedono tre giorni di permesso mensile retribuito 
  • della sentenza n. 26198 del 6 settembre 2022, riferita ai permessi sindacali previsti dall’art. 23 della legge 300/70 per l’espletamento del proprio mandato all’interno della organizzazione sindacale.
 
La natura del permesso e la sua funzione 
In entrambe le sentenze, la Cassazione si è pronunciata valorizzando la natura e la funzione del permesso.
Il permesso utilizzato per dedicarsi ad attività personali in nessun modo vicine o riconducibili alla funzione che giustifica l’assenza dal lavoro – ovvero l’assistenza al familiare disabile nel caso del permesso previsto dalla L.104/1992 e lo svolgimento di attività diversa da quella istituzionale per il permesso sindacale – qualifica la condotta del dipendente in termini di abuso del diritto.
 
Cosa accade se il lavoratore abusa del diritto?
La conseguenza dell’abuso del diritto al godimento dei permessi retribuiti può anche essere il licenziamento. In entrambe le sentenze richiamate la Corte ha infatti dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa disposto per una fruizione indebita dei permessi:
per pacifica giurisprudenza di questa Corte può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso”
e ancora: 
“la qualificazione della condotta del dipendente in termini di abuso del diritto appare coerente con l’accertamento della concreta vicenda, come sopra operato, venendo in rilievo non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali”.
 

Dubbi o necessità di chiederci consigli su un’ esperienza simile? Parliamone

 

 

Licenziamenti nelle piccole imprese: il calcolo dell’indennità di risarcimento

Mentre l’Italia era piegata dal caldo, con la sentenza n. 183 del 22 luglio scorso la Corte di Cassazione ha acceso una rilevante discussione esternando la necessità di una riforma del Jobs Act al suo articolo 9 comma 1, ovvero in ordine alla misura dell’indennità per licenziamento illegittimo quando questo ha luogo in una piccola impresa. La centralità della garanzia di tutele adeguate viene giustificata dalla “connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo”.
 
Cosa ci dice la Consulta sul calcolo dell’indennità?
La questione principale riguarda l’importo. Attualmente, quando un lavoratore di una piccola azienda – ovvero entro i 15 dipendenti – viene licenziato l’indennità risarcitoria prevista è compresa tra le tre e sei mensilità di retribuzione. 
La Corte afferma che continuare a collegare la misura dell’indennità alla sola dimensione dell’azienda non è più attuale perché:
in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli”.
 
Perché la Corte invita alla revisione del criterio di quantificazione dell’indennità? 
Perché l’attuale meccanismo di calcolo non considera che “un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda”.

 

 

È giusto che piccole e grandi aziende abbiano lo stesso meccanismo in caso di licenziamento illegittimo?
La Consulta ci sta dicendo che se l’indennità nelle piccole aziende non dipendesse dal regime speciale attuale ma fosse equiparata a quella delle grandi realtà con importi legati a un numero di mensilità più ampio – da 6 a 36 – i licenziamenti sarebbero più ponderati anche perché, come la Corte lascia intendere, non necessariamente un’azienda con un esiguo numero di dipendenti genera un piccolo fatturato.
Tuttavia, nel contesto produttivo attuale nel quale il numero dei dipendenti è ancora un parametro significativo e soprattutto in un momento storico difficile per la sopravvivenza di molte realtà, la diversificazione dei regimi sembra ancora conservare un suo significato; basti pensare che, per un singolo licenziamento illegittimo, il calcolo dell’indennità ricompreso tra 6 e 36 mensilità – invece che tra 3 e 6 – potrebbe compromettere la continuazione di molte piccole attività produttive travolgendo l’intera forza lavoro in esse occupata. 
 

Dubbi o necessità di chiederci consigli su un’ esperienza simile? Parliamone

 

 

È legittimo il licenziamento di un lavoratore in seguito a controlli da parte di agenzie investigative durante l’orario di lavoro?

Lo diciamo subito: secondo la recente sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione – la n.25287 del 24 agosto 2022 – non lo è. Vediamo perché, osservando come questa pronuncia si posiziona rispetto a decisioni e orientamento precedenti sullo stesso punto. 
 
Agosto 2022, cosa dice la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione
La decisione presa circa un mese fa ha riguardato il licenziamento per motivi disciplinari di un dipendente di un istituto bancario che frequentava palestre e supermercati nell’orario di lavoro. Le assenze dalla sede di lavoro erano state documentate attraverso registrazioni effettuate da un’agenzia investigativa. Il punto centrale è che – seppure ammesse – le investigazioni da parte di soggetti terzi chiamati dal datore di lavoro per tutelare la propria posizione, costituiscono un controllo esterno che deve limitarsi all’accertamento di eventuali atti illeciti, non riconducibili al semplice inadempimento delle prestazioni lavorative.
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento la Suprema Corte ha quindi ritenuto illegittimo il ricorso all’Agenzia investigativa perché riferito allo svolgimento della prestazione lavorativa. La Corte ha richiamato a questo proposito gli articoli 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori (la legge n.300 del 1970) relativi alla tutela della libertà e dignità del lavoratore.
Si ribadisce dunque che il controllo circa l’adempimento delle prestazioni contrattuali di lavoro da parte dei propri dipendenti può essere esercitato solo dal datore di lavoro. Al contrario, il licenziamento sarebbe stato legittimo qualora il dipendente – durante le assenze dal lavoro documentate dalle registrazioni – avesse compiuto atti illeciti, non il solo andare in palestra o al supermercato. 
 
E prima di questa pronuncia? 
La Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Milano con la sentenza 18 ottobre 2021 n. – sul corretto uso dei permessi di lavoro richiesti per la cura di disabili e anziani previsti dalla legge 104 del 1992, aveva già sottolineato come i controlli investigativi da parte di soggetti terzi non potessero riguardare l’adempimento o meno della prestazione lavorativa da parte del dipendente.
Ricordiamo che il controllo sul lavoratore che ha richiesto i permessi della legge 104 è legittimo, rientrando questa ipotesi nel già menzionato articolo 2 della legge n.300 del 1970 che consente di impiegare guardie giurate (impiego esteso alle agenzie investigative) per la tutela del patrimonio aziendale, con il limite previsto dal terzo comma sull’oggetto del controllo ovvero escludendo l’adempimento o meno dell’attività lavorativa.
Anche nel 2018 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nella sentenza n.8373 aveva stabilito che il controllo dovesse concentrarsi esclusivamente sull’utilizzo dei permessi, dunque sull’esistenza o meno di validi motivi che giustifichino l’assenza del lavoratore dal luogo di lavoro e non anche sull’adempimento della prestazione lavorativa.
Sul licenziamento come conseguenza di attività di controllo degli investigatori privati la giurisprudenza recente tende dunque a ribadire che esso sia legittimo laddove i controlli svelino e siano finalizzati unicamente alla verifica di comportamenti che possano integrare condotte illecite di diversa natura.  
 

 

Dubbi o necessità di chiederci consigli su un’ esperienza simile? Parliamone

 

 

Come è stato applicato dai giudici l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario?

La vaccinazione contro il Covid 19 è diventata obbligatoria per il personale medico. Siamo andati a vedere come questa disposizione è stata interpretata finora nelle aule e quali criteri sono stati applicati.

 
Il RIFERIMENTO NORMATIVO è l’art. 4 del D.L. 44/2021 convertito dalla legge 76/2021.
 
CHI RIGUARDA. Gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, para farmacie e negli studi professionali hanno l’obbligo di vaccinarsi.

 

COSA DICE L’ART.4?
La norma ha disegnato un attento iter per individuare correttamente coloro che non siano vaccinati.
In questi casi si procede con l’invito ad eseguire la vaccinazione e, qualora persista inadempimento, si arriva all’adozione di un provvedimento di sospensione dalla prestazione lavorativa.
 
COSA È AVVENUTO?  I giudici hanno dovuto giudicare la legittimità dei provvedimenti di sospensione dall’attività lavorativa adottati da alcuni datori di lavoro, gestori di RSA o strutture analoghe, PRIMA dell’emissione dell’art. 4 o prima della definizione del procedimento disciplinato da questa norma.
Tutte le Ordinanze emesse sino ad oggi dai Tribunali hanno dichiarato legittimi i provvedimenti di sospensione dal servizio e dalla retribuzione del lavoratore che decide di non vaccinarsi contro il Covid-19.
 
I CASI
Tribunale di Roma 28.07.2021
Tribunale di Modena 23.07.2021
Tribunale di Bergamo 16.07.2021
Tribunale di Verona 24.05.2021 e 16.06.2021
 
I PRINCIPI ESPRESSI NELLE ORDINANZE
Nella comparazione delle tutele, l’interesse prevalente è quello della salute collettiva e dei pazienti.
Il rifiuto della somministrazione, non giustificato da cause di esenzione e da specifiche condizioni cliniche, costituisce impedimento di carattere oggettivo all’espletamento della prestazione lavorativa.
È un dovere del datore di lavoro/gestore delle strutture sanitarie adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti (art. 2087 c.c.) e la salute dei pazienti.
 

 I datori di lavoro devono agire sempre con estrema cautela e prudenza. 

Tutela dei diritti alla riservatezza dei lavoratori.

Rispetto dei principi dettati dalla normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro con il coinvolgimento del medico competente.

 

 

Separazione e divorzio: i vantaggi della negoziazione assistita

Quando dobbiamo assistere i nostri clienti per una separazione o un divorzio facciamo sempre presente che è possibile utilizzare la negoziazione assistita, previa verifica dei presupposti. Ecco in breve le caratteristiche principali e il percorso operativo:

 
Il RIFERIMENTO NORMATIVO è l’art. 6 del D.L. 132/2014 convertito dalla L. 162/2014.
La norma consente ai coniugi di sottoscrivere “con l’assistenza di almeno un avvocato per parte” – CONVENZIONI dirette a raggiungere una “soluzione consensuale” di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

 

La PROCEDURA da seguire è, schematicamente, la seguente:
• una parte indirizza all’altra l’invito a partecipare alla procedura di negoziazione assistita
• nel caso di accettazione della parte invitata, viene stipulata la convenzione che indica l’oggetto, i termini e le modalità di svolgimento della procedura
formalizzazione dell’accordo soggetto al controllo giudiziale in quanto la legge prevede la sua trasmissione al Pubblico Ministero.
 
IN ASSENZA di figli minori o maggiorenni disabili o non autosufficienti si chiede al PM la concessione di un nulla osta, previa verifica dell’assenza di irregolarità.
La procedura è ammissibile anche IN PRESENZA figli minori o incapaci o con handicap grave o non economicamente autosufficienti ma è più articolata. In questa ipotesi l’accordo viene trasmesso al P.M. che solo nel caso in cui le intese raggiunte rispondano all’interesse della prole emette un’apposita autorizzazione.
 
In caso di MANCATA AUTORIZZAZIONE le parti dovranno comparire avanti al Presidente del Tribunale e solo con l’adesione integrale alle indicazioni del PM l’accordo potrà essere autorizzato.

 

 

L’accordo di negoziazione assistita raggiunto dai coniugi – autorizzato / vistato dal PM – produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

 

Rette di degenza per malati di Alzheimer: una narrazione che richiede chiarezza

È sempre d’attualità il tema della natura delle prestazioni erogate dalle RSA ai malati di Alzheimer e della conseguente individuazione del soggetto tenuto al pagamento delle rette di degenza.

 

 

Le pagine web sono ricche di articoli che, rifacendosi ad alcune sentenze, inducono i parenti di persone affette da morbo di Alzheimer a contestare alle RSA il pagamento delle rette e, in alcuni casi, ad interrompere i pagamenti

 

 

Dietro titoli quali “Le famiglie dei malati di Alzheimer non devono pagare le rette” o ancora “La retta dei malati di Alzheimer va pagata dal SSN” si celano in realtà problematiche giuridiche articolate (che qui non potranno che essere semplificate) e un contrasto giurisprudenziale che vede frequentemente le RSA vittoriose nelle aule di tribunale.

 

A chi spetta provvedere agli oneri di degenza: quando l’obbligato era il SSN

 

Per meglio comprendere il cuore dell’argomento occorre considerare che nel nostro sistema giuridico alcune norme assegnavano al fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali.

 

In linea con queste previsioni, la giurisprudenza della Suprema Corte – Cassazione Civile 4558/2012 e Cassazione 22776/2016 per chi volesse vedere in dettaglio – aveva affermato che

 

 

in caso di inscindibilità fra carattere sanitario e socio-assistenziale delle prestazioni, l’attività erogata dalle strutture avrebbe dovuto essere qualificata di rilievo sanitario, con gli oneri di degenza a carico esclusivo del Servizio Sanitario Nazionale

 

 

Il contesto normativo è però mutato negli anni e le attuali norme di riferimento (DPCM 14.02.2001, DPCM 29.11.2001, DPCM 12.01.2017) hanno dato origine ad un diverso orientamento giurisprudenziale, sebbene non univoco ma comunque prevalente, stavolta favorevole alle RSA.

 

 

Il mutamento normativo e nella giurisprudenza legittima la richiesta di pagamento delle rette

Cosa è avvenuto? Molti tribunali hanno riqualificato come trattamenti di lunga-assistenza residenziale e semiresidenziale (per le quali è prevista la partecipazione a carico dell’assistito nella misura del 50%) le prestazioni erogate dalle RSA nei confronti di ospiti affetti da Alzheimer, ritenendo così legittima – da parte delle strutture – la richiesta di pagamento delle rette.

Ad analoga conclusione, seppure per altra via, giungono altresì quelle sentenze che

 

 

pongono l’accento sul contratto dal quale origina il ricovero in RSA, soffermandosi in modo particolare sull’assenza nel nostro ordinamento giuridico di una norma che vieti ai soggetti privati la conclusione di un negozio avente per oggetto l’erogazione di prestazioni sanitarie a fronte di un corrispettivo in denaro

 

 

Anche secondo questa interessante lettura del contesto normativo di riferimento, l’assunzione dell’obbligo di pagamento di prestazioni sanitarie è lecita e il contratto valido con ogni conseguente effetto.

Cosa fare quando un dipendente contrae il Covid?

Per molte aziende e imprenditori questo è un argomento estremamente attuale e delicato.

 

Cerchiamo dunque di fare chiarezza sul tema del ruolo del datore di lavoro quando un proprio dipendente contrae il virus in occasione di lavoro, riepilogando la procedura prevista anche dal lato dell’azienda.

 

Il coronavirus è un infortunio

Il riferimento normativo che ci interessa è l’articolo 42, comma 2, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, (c.d. “Cura Italia”), convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, secondo il quale questo caso rientra tra quelli tutelati dall’Inail quale infortunio sul lavoro.

 

Conseguenza della qualificazione dell’infezione da Coronavirus come infortunio è l’attivazione della procedura disciplinata dal testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (D.P.R. 1124/1965).

 

 

“nei casi accertati di infezione da Coronavirus in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da Coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”

 

 

L’obbligo di comunicazione

 

  • Il lavoratore che ha contratto il virus è obbligato a darne immediata notizia al proprio datore di lavoro.
  • Il datore di lavoro è obbligato a denunciare l’infortunio del proprio dipendente all’istituto assicuratore (come per tutti i casi di infortuni pronosticati non guaribili entro tre giorni).
  • La denuncia da parte del datore di lavoro deve essere fatta in via telematica entro 2 giorni dal ricevimento del certificato medico che attesta la positività e il collegamento dell’evento Covid all’attività lavorativa. Da notare che il sabato non è considerato giorno festivo e che la scadenza di sabato non si sposta dunque al lunedì successivo. Alla denuncia deve essere allegato il certificato medico prodotto dal lavoratore.

 

Il ruolo centrale della certificazione medica

Come per tutti i casi di infortunio per i quali la guarigione è pronosticata oltre i tre giorni, si presenta dunque l’obbligo di denuncia alla quale va allegata la certificazione medica.

 

Nel caso dell’infezione da Covid è noto che la presenza della patologia si esteriorizza con la manifestazione dei sintomi e solo successivamente si ha la prova diagnostica.

 

Questo punto resta tuttavia centrale per la possibile applicazione della tutela Inail che – nella Circolare n. 22 del 2 aprile 1998 alla voce “Termini per la presentazione delle denunce e dei certificati medici” – prevede infatti che la denuncia di infortunio da parte del datore di lavoro non possa essere correttamente effettuata prima dell’acquisizione del certificato medico ponendo questo documento come momento determinante agli effetti della notizia dell’evento lesivo.

 

 

Nella Circolare 13 del 2020 l’Inail ha ribadito come l’obbligo dell’invio e la conseguente acquisizione del certificato di infortunio, assieme al requisito dell’occasione di lavoro, siano essenziali ai fini del perfezionamento della fattispecie della malattia – infortunio.

 

 

Il datore di lavoro e la compilazione della denuncia

Nella stessa Circolare l’Inail sottolinea come il datore di lavoro al momento della compilazione della denuncia debba prestare particolare attenzione ai campi attinenti le date relative:

 

  • all’evento
  • all’abbandono del lavoro
  • alla conoscenza dei riferimenti della certificazione medica che attesta l’avvenuto contagio

 

Il datore di lavoro è autorizzato a fare dichiarazioni circa la riconducibilità della contrazione del virus sul posto di lavoro? Questo non è possibile ma, in considerazione della presunzione di contagio in ambito lavorativo che opera per gli operatori sanitari (anche di coloro che operano ad esempio nelle RSA), deve ritenersi però ammessa:

 

  • la possibilità di indicare nella denuncia elementi utili ad escludere l’ambiente lavorativo quale luogo del contagio (a titolo esemplificativo: il fatto che nella struttura o nel reparto non vi siano casi di contagio fra ospiti ed operatori)
  • la possibilità di allegare documenti che si ritiene possano essere utili per valutare la non riconducibilità del caso al contesto lavorativo.

 

 

La denuncia deve comunque essere trasmessa; ciò indipendentemente da ogni valutazione da parte del datore di lavoro sulla riconducibilità della contrazione del virus sul posto di lavoro.

Loading new posts...
No more posts